L’innovazione non è donna: solo lo 0,2% delle ragazze italiane aspira a lavorare nell’Ict
Se volere è potere, per le ragazze italiane la sfida dell’innovazione appare tutta in salita: appena lo 0,2% delle quindicenni aspira a lavorare come professionista Ict all’età di 30 anni contro il 3% degli adolescenti maschi (che in altri Paesi arrivano al 15%) e contro una quota tra le coetanee europee che solo in quattro Stati va dall’1 al 3 per cento. Un gap di partenza che inficia irrimediabilmente il quadro occupazionale finale – nell’Ue più di 8 posti di lavoro nel settore dell’Information&Communication Technology sono ricoperti da uomini – ma soprattutto le prospettive future. Perché questo ambito è tra i più promettenti: si calcola che nei prossimi anni crescerà più di otto volte rispetto all’aumento medio dell’occupazione in Europa.
Oggi la country visit dell’Eige a Roma
I numeri, ricavati dai dati del programma Pisa dell’Ocse, sono ripresi nel documento “Women and men in Ict: a chance for better work-life balance” che oggi Eige, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, discuterà a Roma in occasione di una country visit promossa con il Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio, che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Linda Laura Sabbadini dell’Istat e del presidente dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, Maurizio Del Conte. Un’occasione per presentare anche in Italia il Gender Equality Index sfornato lo scorso anno, che ha segnalato luci e ombre: siamo sì il Paese che nel decennio 2005-2015 ha registrato i maggiori progressi, balzando dal 26° al 14° posto con 62,1 punti su 100 (lasciando la Grecia ultima a quota 50), ma il cammino è lento e faticoso. La scalata si deve quasi esclusivamente agli effetti della legge Golfo-Mosca del 2012 sulle quote nei Cda. Per il resto, soprattutto nelle macro-aree della divisione del lavoro di cura e in quella degli stipendi e della situazione economica, perdiamo posizioni.
La piaga della segregazione di genere nell’educazione
Ma è soprattutto il tema della segregazione di genere nel sistema educativo, e in particolare nelle Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), a preoccupare. Come ha già rilevato il rapporto “Women Digital Age” della Commissione europea, solo il 24,9% delle donne si laurea in settori legati alla tecnologia, mentre la quota di uomini impiegata nel digitale è tre volte superiore a quella femminile. L’Europa, che già soffre di una carenza di competenze digitali, non si sta dimostrando in grado di colmare questo vuoto. E a causa della mancanza di donne a bordo non riesce a navigare alla massima velocità. Uno spreco di potenziale tanto più grave quanto più debole è la crescita di un Paese. Per questo l’Italia non può permettersi di perdere questo treno.
Più donne nelle Stem, più crescita
Secondo il report “Vantaggi economici dell’uguaglianza di genere nell’Ue”, pubblicato da Eige a fine 2017, se le donne fruiranno di una maggiore parità di opportunità nell’istruzione in campo Stem e nel mercato del lavoro, il tasso di occupazione nell’Unione aumenterebbe di 0,5-0,8 punti percentuali entro il 2030 e di 2,1-3,5 punti entro il 2050, quando potrebbe raggiungere l’80% circa se si registrassero sostanziali miglioramenti nell’uguaglianza di genere. Significherebbe 10,5 milioni di nuovi posti di lavoro nel 2050 (il 70% dei quali per le donne), come gli occupati in tutti i Paesi Bassi. Ma anche un aumento del Pil pro capite dell’Ue di 6,1-9,6%. Negli Stati membri più in ritardo come l’Italia, dunque con più margini di miglioramento, si dovrebbe arrivare a un aumento del Pil del 12% entro il 2050.
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