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L’Università oltre l’emergenza

di Stefania Capogna Professore Associato e Direttrice del Centro di Ricerca Digital Technologies, Education & Society, Link Campus University e Responsabile Osservatorio Educazione Digitale AIDR

La Digital Conference su “L’Università oltre l’emergenza” ha chiuso il 15 Luglio 2020 il ciclo di Tavole Rotonde promosse dal centro di ricerca DiTES (Digital Technologies, Education & Society) della Link Campus University in collaborazione con l’Associazione Italiana Digital Revolution (AIDR).

Oggi più che mai, anche a seguito della pandemia globale, è evidente il ruolo strategico dell’educazione, non solo ai fini della produzione di nuova conoscenza strategica, per intervenire con competenza nella risoluzione di problemi complessi che necessitano di essere gestiti con un approccio sistemico e multidisciplinare ma anche, e soprattutto, perché si rivela il miglior investimento per promuovere l’educazione alla cura del sé, dell’ambiente e del bene comune.

A fronte di queste premesse, nel corso della Tavola Rotonda, con la moderazione di Silvia Cristofori (Centro di ricerca DITES) ci si è interrogati sull’università post Covid-19, nel tentativo di comprendere:

  • Cosa è possibile apprendere dall’esperienza dell’emergenza?
  • Come ‘traghettare’ l’innovazione, sempre attesa e mai del tutto realizzata?
  • Come costruire relazioni virtuose tra centro e territori nel quadro della valorizzazione tanto dei sistemi di autonomia quanto di un comune e condiviso framework culturale?

Il dibattito è aperto da Maria Francesca Renzi (Dipartimento di Economia Aziendale, Università degli Studi Roma Tre) che presenta una prima analisi dei dati di una ricerca ancora in progress sulla Didattica a distanza ai tempi del Covid.

E’ possibile partecipare ancora fino al 31.07.2020 alla ricerca compilando il questionario al seguente link: https://it.surveymonkey.com/r/8KC8GKK.

La ricerca, frutto di un lavoro realizzato da un pool composto da attori co-interessati al tema del futuro dell’educazione, mira a comprendere come, nel lungo periodo, si possano modificare i modelli della formazione in virtù dell’emergenza didattica determinata dalla pandemia globale. La presentazione si focalizza sui dati working progress relativi esclusivamente all’ambito universitario lasciando fuori, da questo esame, i dati sulla scuola. Renzi parte dalla considerazione che tutto il sistema universitario ha dovuto integrare improvvisamente soluzioni didattiche innovative che hanno lasciato un segno indelebile, aprendo nuovi scenari e nuove opportunità che, a partire dall’emergenza, rivelano tutto il loro potenziale. Senza considerare che la possibilità di condividere un fenomeno a livello globale ha gettato le basi per la creazione di una community che in modo trasversale si sta confrontando con la sfida della didattica online alla ricerca di soluzioni condivise. Tale prospettiva allarga il campo della competizione tra le università ben oltre il quadro dei confini nazionali. Anche per questo è urgente come sistema universitario fare tesoro di questa esperienza e migliorare complessivamente la nostra offerta didattica, perché nella competizione globale bisognerà essere competitivi rispetto a nuovi bisogni, essere capaci di attrarre non solo studenti locali o nazionali ma anche l’ampia platea internazionale resa prossima dalla didattica online. Con questo lavoro si è cercato di comprendere “le percezioni degli studenti nella didattica a distanza”. E seppure è vero che l’università in generale ha avuto un rapido tempo di reazione, le criticità maggiormente evidenziate dagli studenti riguardano: la difficoltà di interazione con i docenti; la riduzione della relazione empatica; i problemi di connessione; la scarsa coordinazione tra docenti, i quali spesso hanno dovuto sopperire all’emergenza con iniziative individuali che si sono trasformate  in un carico di lavoro ulteriore per studenti e docenti. E’ interessante, però, che nonostante queste criticità gli studenti diano una valutazione complessivamente positiva dell’esperienza in funzione del fatto che possono gestire meglio i propri impegni e il tempo dedicato al processo di formazione; possono accedere a materiali online; possono conservare le registrazioni e ritornare sulle lezioni e i materiali di studio in momenti diversi. I dati sinora raccolti mostrano circa un 30% dei rispondenti che dichiara che non avrebbe frequentato i corsi universitari se fossero stati in presenza. Paradossalmente l’emergenza ha permesso di includere studenti che normalmente non avrebbero partecipato alle lezioni, studenti lavoratori e fuori sede che di solito restano isolati nella propria esperienza formativa. Nondimeno, poco o nulla è stato fatto per rispondere alle esigenze di ragazzi con disabilità di apprendimento e altre fragilità. L’Università non può ignorare il potenziale offerto dalle tecnologie che aprono alla possibilità di includere persone ma, al contempo, deve riflettere sul fatto che tali tecnologie, senza il filtro della diversità e delle articolazioni che questa richiede, rischiano di trasformarsi in strumenti di esclusione per molte altre categorie. Un altro aspetto di carattere pratico segnalato dagli studenti va sotto la voce del mancato coordinamento, ed è il tema della quantità delle piattaforme disponibili. Ai fini dell’imminente nuovo anno accademico è importante sottolineare che gli studenti dichiarano di voler tornare in presenza, senza perdere i vantaggi offerti dalle innovazioni e i progressi conquistati sul fronte dell’integrazione delle tecnologie digitali nei processi educativi e comunicativi.

Alessandro Figus (IMI, Chisinau Moldova; Zhubanov Regional State University, Aktobe, Kazakistan) allarga la riflessione al piano internazionale, evidenziando come l’emergenza pandemica abbia messo in crisi tutti i sistemi educativi di tutto il mondo. Focalizzando l’attenzione sul caso Italia, tra le altre cose, egli richiama la fragilità del sistema infrastrutturale che ha rappresentato una delle prime criticità per tutto il sistema educativo. “Dal punto di vista delle strutture l’Italia non è un paese omogeneo, non è solo una questione di banda larga. Alcuni territori non hanno nemmeno la connessione Internet. Le diseguaglianze economiche hanno rivelato la diffusione di molti ragazzi senza PC e altri dispositivi per potersi connettere; mentre i docenti non erano preparati ad affrontare ed erogare formazione on-line”. In estrema sintesi, il quadro tratteggiato da Figus mostra che l’emergenza digitale in questo paese travalica il sistema educativo, rappresentando un problema cruciale dell’agenda digitale europea che colloca l’Italia al 27esimo nel panorama europeo. La trasformazione nella didattica avviata dall’emergenza Covid-19 interessa trasversalmente tutto il sistema educativo e universitario, ponendo nuove sfide sia alle cosiddette università telematiche, sia a quelle convenzionali. Motivo per cui bisogna investire su un corpo docente giovane, preparato e pronto alla digitalizzazione.

Luca Lantero (CIMEA – Centro di Informazione sulla Mobilità e le Equivalenze Accademiche), a partire dal suo osservatorio privilegiato, presenta un quadro della situazione a livello nazionale sottolineando che i primi esiti di ricerca illustrati coincidano anche con i dati in loro possesso, secondo cui il 90% degli studenti è stato raggiunto dalla didattica a distanza in una settimana. L’università si conferma come una comunità di formazione che deve essere capace di raggiungere diversi “profili di studenti” mediante modalità flessibili, perché trattandosi di adulti essi possono essere lontani, oltre frontiera, professionisti in “transizione” o che necessitano di accrescere le proprie competenze. Proprio per questo, sottolinea Lantero, sono stati fissati i seguenti obiettivi di intervento: potenziamento delle infrastrutture digitali;  dematerializzazione dei procedimenti amministrativi; formazione del personale tecnico amministrativo ecc. Inoltre, egli aggiunge, si stanno studiando nuove tecniche di remote teaching per l’internazionalizzazione dell’offerta didattica. “La digitalizzazione limita gli spostamenti da un capo all’altro del mondo”. Tuttavia, se si vuole entrare nella comunicazione digitale, “non si deve commettere l’errore di scimmiottare una modalità in presenza che nessuna virtualità potrà mai replicare”. Altro punto di interesse riguarda la tempestiva dematerializzazione delle richieste di visto per frequentare l’università oltre frontiera. A questo proposito, Lantero spiega che l’Italia, con il CIMEA, è il primo Paese a utilizzare la tecnologia blockchain applicata all’ambito del riconoscimento dei titoli di studio. Con il servizio «diplome», è stato sviluppato un “Wallet” per ogni possessore di titoli che consente al soggetto di caricare le proprie qualifiche utilizzando questa tecnologia. Si tratta di un ecosistema globale, che può essere utilizzato da enti e istituzioni che rilasciano e certificano qualifiche e questo consente di realizzare un sistema di gestione dei titoli di studio decentralizzato, trasparente, certificato e immutabile, garantendo portabilità, autenticità e semplificazione delle procedure di riconoscimento. E’ evidente che l’emergenza pandemica e la sterzata verso la digitalizzazione nelle università cambierà il volto dell’internazionalizzazione; la mobilità verrà a prendere nuove forme superando il vincolo dello spostamento fisico e delle frontiere.

Ruggeri (Università della Tuscia) sposta l’analisi del problema ricordando che non tutto andava bene prima del Covid-19 e che quest’ultimo ha solo fatto emergere questioni che erano già nello sfondo. In primis egli ricorda che questo paese da troppo tempo assegna alla ricerca e all’università un peso limitato in tutte le sue componenti come testimoniano gli scarsi investimenti sul lungo periodo. A suo avviso, “alla base dell’arretratezza del nostro sistema industriale, che soffre il confronto con gli altri paesi, pur avendo imprenditori e imprese capaci, si riscontra la carenza di innovazione tecnologica e di visione a lungo termine che può essere garantita solo da una relazione solida e duratura con il sistema formativo e della ricerca”. In secondo luogo, egli sottolinea che la pandemia globale può offrire delle un’opportunità concreta ma bisogna essere capaci di imparare dagli errori e valorizzare le esperienze positive. Ad esempio, è necessario creare un sistema di coordinamento tra le varie iniziative evitando duplicazioni, così come occorre un maggior coordinamento nella ricerca, pensando a pochi progetti eccellenti, piuttosto che mille rivoli progettuali, distinguendo un primo livello che si rivolge a grandi obiettivi su scala nazionale e internazionale con investimenti pubblici, coordinati e trasversali tra loro, e un secondo livello che si rivolga a centri di ricerca più piccoli che possono specializzarsi in network in modo da essere capillari e attivi nel tessuto produttivo locale. Ruggieri ricorda nelle conclusioni un piano di azione urgente e non derogabile, ai fini di un nuovo inizio che si fonda sui seguenti obiettivi:

  • la flessibilizzazione dei percorsi formativi per coinvolgere maggiormente le imprese, attraverso un maggiore numero di crediti per attività extracurricolari;
  • la disponibilità di banche dati accessibili e integrate per sostenere processi decisionali e attività di pianificazione maggiormente informata;
  • potenziamento della relazione imprese/territorio/università;
  • formazione degli imprenditori,
  • semplificazione dei processi anche grazie alla digitalizzazione;
  • maggiori investimenti in alta formazione e startup.

Per fare questo, è necessario creare, a suo avviso, poche infrastrutture qualificate che possano sostenere e orientare la ricerca incentivando e promuovendo interventi di co-progettazione tra azienda e università.

Per quanto riguarda le ricadute sulla didattica è evidente che la distanza a distanza, in tutte le sue forme, deve diventare parte integrante della didattica, per questo è necessario pensare alla formazione del corpo docente. In conclusione, ricorda Ruggieri, occorre da un lato una pianificazione di lungo periodo capace di tenere conto dei processi di governance condivisa con i territori, coordinando nel tempo le azioni; dall’altro occorre un’efficace azione di coordinamento per evitare la frammentarietà e la dispersione delle azioni. “Se vi vuole realmente cambiare non bisogna perdere di vista il riflesso che producono le trasformazioni. I sistemi complessi sono per definizione autogeneranti. Per governarli non basta essere resilienti ma occorre fare della resilienza un esercizio sistemico, capace di cogliere i mutamenti spesso accontentandosi di correggerne la rotta piuttosto che la natura”.

Alcune considerazioni di sintesi possono essere raccolte a valle del ricco confronto che la Tavola Rotonda ha reso possibile per mezzo di testimonianze complementari che hanno messo in evidenza aspetti diversi dell’università, intesa come attore di sviluppo locale.

Il fil rouge che sottende tutti gli interventi riguarda la necessità di una revisione normativa che conduca a un documento unico e a uno snellimento delle procedure. Sono tutti d’accordo infatti nel ricordare che negli anni si è prodotta una tale stratificazione normativa che talvolta rende difficile comprendere il principio giuridico di riferimento. Ma una seria semplificazione dovrebbe prendere in esame anche la specificità universitaria cercando di costruire un’armonizzazione tra la spinta all’autonomia della ricerca e della didattica e il quadro normativo generale che colloca l’università all’interno dei vincoli e delle procedure tipiche della pubblica amministrazione, i quali troppo spesso si pongono come lacciuoli all’innovazione e alla sperimentazione.

Tuttavia, nelle conclusioni, per delineare il ruolo dell’Università oltre la crisi, si è cercato di spostare l’attenzione, utilizzando la metafora della prassi orientativa, dal locus of control esterno a quello interno, per comprendere i margini di azione su cui è possibile intervenire, pur in considerazione di un ambiente che la contiene e la determina. L’università infatti non può rinunciare al suo ruolo di indirizzo culturale e di innovazione sociale, prima ancora che tecnologica. Non può rinunciare a tracciare una strada, costruire visioni di lungo periodo e un’anticipazione del futuro.

Per questo, è importante operare uno sforzo di auto-analisi volto a comprendere, al di là dei molti vincoli di sistema, quali sono i limiti, gli errori, gli strabismi su cui l’università come organizzazione ha inciampato nel corso degli anni. Per ripartire è necessario prendere piena consapevolezza delle maglie su cui l’università può intervenire per offrire nuove prospettive di azione. Prima tra tutte la dicotomia tra università telematiche e università convenzionali. Una dicotomia che molto dipende dal modo in cui le università hanno inteso il digitale delegandolo per lo più alle università private che in questo hanno visto, e realizzato, un mercato. Mentre il digitale, come hanno ricordato tutti gli interventi necessita di essere integrato nelle prassi professionali, educative e organizzative perché è solo uno strumento tra gli altri, né buono, né cattivo ma indispensabile.

Una seconda dicotomia da cui difendersi è quella tra nozionismo e apprendimento. Il nozionismo mira attraverso il digitale a trasformare le conoscenze in mini pillole di contenuti affinché si possano guadagnare rapidamente CFU, svuotando di senso la relazione educativa e trasformando il docente in un commentatore di slide; mentre l’apprendimento richiama l’università e la comunità accademica a saper disegnare ambienti e percorsi di apprendimento online, comunitari ed esperienziali (presenziali e digitali) all’interno del quale il soggetto possa accrescere tutte le sue conoscenze e competenze, nel quadro di quelle attese dal World Economic Forum per il XXI secolo.

Altro tema rilevante toccato dalla Tavola Rotonda ha riguardato l’abbassamento degli standard di qualità degli studenti in ingresso e il gap di competenze che si registra rispetto al mercato del lavoro. Ancora una volta per essere positivi e proattivi è necessario interrogarsi sugli spazi di autonomia su cui l’università può intervenire. E considerando che è l’università a formare le classi dirigenti politiche, educative ed economiche del paese forse è giunto il momento di interrogarsi sui principi che orientano la progettazione dell’offerta formativa e didattica affinché possa meglio rispondere alle attese di un mondo che è cambiato.

Fermo restando tutti i limiti connessi a un sistema generale che invoca l’autonomia universitaria e scolastica, e mentre la invoca la imbriglia in vincoli sempre più stretti su cui è necessario intervenire come sistema paese, nelle conclusioni si vogliono richiamare alcuni degli elementi che non sono delegabili né derogabili, e su cui l’università può interrogarsi e agire come comunità accademica. Questi elementi riguardano una sorta di difetto di vision e di strategia nel momento in cui le singole università hanno la possibilità di determinare i propri piani strategici di breve e medio periodo; di definire i loro obiettivi di qualità e i relativi sistemi di premialità interna. Le università al contempo scelgono le logiche e gli stili di leadership su cui investire nel momento in cui vanno a delineare le loro articolazioni nei processi di Assicurazione della Qualità e le responsabilità interne lungo la catena dei processi decisionali. Infine, si deve ricordare che nulla osta a definire sistemi di teaching learning per supportare la qualità della didattica sia in aula che attraverso i sistemi digitali, e che questo è un punto all’attenzione di tutte le politiche europee degli ultimi dieci anni. Tutte queste cose sono nelle corde dell’autonomia universitaria, fanno parte dei compiti e delle responsabilità ordinarie degli organi accademici che, per tanti motivi, non ultimo quello della carenza delle risorse, forse sono stati un po’ trascurati.

Cogliere questa crisi e trasformarla in opportunità significa soffermarsi “sugli incidenti critici” su cui l’innovazione dell’università si è arenata ma, soprattutto, quali sono i margini di azione su cui come comunità accademica si può lavorare in modo che l’Università possa davvero essere un soggetto attivo nel dibattito pubblico e possa essere un soggetto proattivo di indirizzo nel cambiamento sociale.

L’Università quale soggetto di costruzione e diffusione di conoscenza ha il dovere di rivendicare un ruolo attivo nel progetto di ristrutturazione sociale che deve condurre a un nuovo modello educativo a misura di persona, di studente, di docente e di sviluppo sociale. Per fare questo, la sfida più grande che l’università deve cogliere è quella di riconoscersi come organizzazione complessa. Un’organizzazione capace di: identificare e valorizzare le sue articolazioni interne mediante sistemi di dialogo efficace sia all’interno che all’esterno; costruire relazioni sistematiche con il territorio; valorizzare una cultura del dato a sostegno dei processi decisionali ma anche quella dell’autovalutazione in una prospettiva di miglioramento continuo; promuovere una comunicazione scientifica che possa fare cultura diffusa in ordine al noto concetto di Terza Missione; e, infine, attivare una sorta di contro narrazione che si ponga come obiettivo quello di spiegare il ruolo dell’università nel sistema sociale, in modo da portare alla luce il valore e il contributo che questa offre al territorio, contrastando le facili speculazioni comunicative che ne offuscano la rilevanza. Tutte azioni queste che concorrono a superare quel diffuso modus operandis che vede i sistemi educativi, e in particolare l’università, muoversi all’interno di logiche autoreferenziali, per promuovere invece una logica di filiera e di networking, favorendo l’attivazione e la partecipazione della comunità.

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