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Discrimino ergo sum

di Alessandro Capezzuoli funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr

Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro, diceva Andrea Camilleri. La discriminazione delle minoranze è un male antico dell’umanità a cui non è riuscito a trovare una cura nemmeno Dio in persona, consegnando a Mosè quelle famose tavole contenenti le “istruzioni per l’uso” in cui c’era scritto Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Chissà cosa penserebbe, Dio, guardando i suoi figli scannarsi nei talk show televisivi a colpi di insulti e di falsi dogmi costruiti ad arte per dividere i buoni dai cattivi, sulla base di pregiudizi e appartenenze. La verità è che la diversità fa paura e la maggioranza è sempre legittimata a sentirsi dalla parte giusta della barricata, nonostante sia stato ampiamente dimostrato dalla storia, e da Calvino, che prima di alzare un muro è sempre buona norma tenere presente ciò che si lascia fuori. Scrittori, poeti e cantautori hanno descritto la discriminazione molto meglio di quanto possa riuscire a fare io, anche vivendo dieci vite, per questo mi limiterò a fare alcune considerazioni “più o meno digitali”. Non prima di aver dichiarato apertamente la mia posizione rispetto alle discriminazioni, però. Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà, scriveva De Andrè, uno tra i pochi autori contemporanei che, insieme a George Brassens e Jacque Brel,  è riuscito non solo a dare voce alla diversità, ma a far emergere la bellezza dirompente degli ultimi, quelli che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come una distrazione, quelli che viaggiano in direzione ostinata e contraria con un marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muovono gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità. Ecco, sono fermamente convinto che il senso delle minoranze sia proprio una goccia di splendore da consegnare in dono alla morte. Senza cadere nel tranello della retorica, mi verrebbe da dire che ogni uomo, a suo modo, è un “ultimo”.  Ognuno ha una goccia di splendore da consegnare alla morte o a qualcuno, perché ogni uomo è diverso e, soprattutto, ogni uomo è solo. Uomo inteso come essere umano, sia chiaro. L’uom*, inclusivo, come direbbero a Napoli, o la donnə, inclusiva, come direbbero a Bari. Perdonerete la franchezza, ma a me l’inclusività letteraria fa un po’ sorridere: la ritengo  un esempio pratico di come la superficialità e l’ipocrisia abbiano trasformato il problema della differenza tra un uomo e una donna in un problema lessicale e non culturale. Moriremo di “politicamente corretto”, quello che salva l’apparenza e l’appartenenza, e che, in altri tempi, avrebbe reso impossibile la scrittura della DIvina Commedia o del DIalogo sui massimi sistemi: due opere troppo sovversive per rispettare i criteri mediocri dettati dalla borghesia moderna. La verità è che la vita e la natura sono politicamente scorrette, di conseguenza lo sono l’arte, la politica, l’economia e i rapporti umani. Amen. La digitalizzazione è inclusiva e politicamente corretta? Beh, proviamo a rispondere a questa domanda, mettendoci dalla parte di un anziano alle prese con Spid: mia nonna, vostra nonna.

In primo luogo, per poter prendere un appuntamento negli uffici postali, avrebbe bisogno di scaricare l’app Poste ID, che richiede la registrazione di un account (procedura non proprio banale) e che ha un menù articolato per arrivare al pulsante “Prenota appuntamento”. E nonna, si sa, è in grado di cucinare per un esercito di parenti, ma non ha dimestichezza con lo smartphone. Quindi, si reca all’ufficio postale. Là fuori, al freddo o sotto il sole estivo, troverà ad accoglierla una coda esagerata, coda evitata abilmente dai giovani digitali, che mangiano pane e app. Finalmente, dopo due ore di attesa, nonna riuscirà a parlare con un operatore, sorridente o incazzato in base all’andamento generale della giornata, il quale le dirà parole incomprensibili e le farà firmare mucchi di fogli sulla fiducia, liquidandola con un bel “Riceverà un’email e un SMS per completare la registrazione. E mi raccomando, ricordi di impostare una password sicura e di effettuare, al termine della registrazione, il pagamento on line di 12 euro”. A questo punto, nonna, famosa per la pazienza e l’autocontrollo con cui prepara milioni di tortellini per il giorno di Natale, perde le staffe, inizia a imprecare contro i santi indemoniati Gates e Jobs, e maledice il giorno in cui l’hanno obbligata a richiedere lo SPID per far accedere il consulente del CAF al sito dell’INPS.

Amareggiata, per aver perso del tempo prezioso e non essere riuscita a concludere nulla,  chiede aiuto al figlio, il quale, nonostante il tempo risparmiato, grazie alla digitalizzazione, per pagare le bollette o per le pratiche bancarie, non riesce a trovare dieci minuti per andare a trovare la madre, che ha bisogno di quel maledetto SPID. A nonna non resta che tentare da sola l’impresa e sfidare a viso aperto il mostro contenuto nell’email (aperta grazie all’aiuto del figlio della portiera). Il suo dito incerto e rugoso fa clic sul link e magicamente entra in un moderno paese delle meraviglie in cui il Bianconiglio ha le sembianze dell’addetto ai servizi postali, ribattezzato prontamente da nonna Bianconiglione. Questo intrepido roditore digitale la conduce in un bosco di schermate apparentemente simili, in cui è necessario autenticarsi più volte fino ad arrivare di fronte al Cappellaio matto, quello che la invita a scegliere una password composta da caratteri maiuscoli, minuscoli, numerici e speciali. A questo punto, nonna ricorre alla creatività partenopea e inserisce una password evocativa: Chitemmuort43.

Prova a proseguire, ma il Bianconiglione l’avverte, con una schermata di errore visibile solo se si fa scorrere la pagina di registrazione all’inizio, che Chitemmuort43 non va bene perché non è conforme alle regole. In preda al rancore più profondo verso la società, nonna aggiunge a Chitemmuort43 anche  #&%$£:!.

Il sistema l’avvisa che apprezza lo sforzo e la collaborazione, ma il Chitemmuort deve essere confermato in un ulteriore campo. Più confermato di così, pensa lei, indirizzando la preghiera contenuta nella password al signor Franco Poste e a tutta la sua famiglia. A questo punto, giunge di fronte al mostro finale, quello che si incontrava nei videogiochi arcade degli anni ‘80: il pagamento dei 12 euro, da effettuare con i servizi Bancoposta, per essere certi che l’operazione possa andare a buon fine, o con qualche carta di credito, non meglio specificata, facente parte di altri circuiti, per essere certi che il pagamento possa essere rifiutato. E niente, ci prova, ci riprova, terrorizzata dalle conseguenze che potrebbe avere dopo aver fornito gli estremi della carta di credito al Bianconiglione, ma l’errore che le si palesa, sempre all’inizio della schermata, è sempre lo stesso “Si è verificato un errore nella compilazione”.

A questo punto, anche nonna, per quanto pia e timorata di dio, “sbrocca” e inizia a far ricorso alle preghiere imparate sui banchi di quella scuola televisiva che aveva come maestri Bombolo e il commissario Monnezza. Il figlio, forse per miracolo, o forse perché le maledizioni sono più efficaci delle preghiere, si muova a compassione e corre in soccorso del genitore blasfemo e fumantino. Anche lui, però, nonostante la sua laurea in ingegneria informatica, deve arrendersi a quel messaggio criptico: “Si è verificato un errore nella compilazione”. Come tutti gli informatici posti davanti a un errore incomprensibile, perché, diciamo la verità, all’apparenza sembra tutto giusto, i dati anagrafici, gli estremi della carta di credito…, inizia a parlare con lo schermo dello smartphone.

  • Ma perché mi fai così? Ce l’hai con me? Che t’ho fatto?

Si tratta di una vecchia tecnica per cercare di intenerire l’avversario, ma l’avversario ormai ha capito il trucchetto e non cede: “Si è verificato un errore nella compilazione”.

All’ingegnere, figlio di cotanta madre, non resta che abbandonarsi alle stesse preghiere descritte poche righe sopra e prendere un appuntamento con un operatore tramite l’app Poste ID. Nonna è felicissima di uscire col figlio: indossa il suo vestitone di flanella migliore, si ubriaca con litri di acqua di colonia ed elude la fila, esibendo il dito medio alla sua vicina di pianerottolo. Ci sono un ingegnere, una nonna e un operatore postale prossimo alla pensione… sembra l’inizio di una barzelletta, ma purtroppo è la triste realtà. Anche l’operatore, il Bianconiglione, è una vittima della digitalizzazione e non riesce a capire perché la procedura si blocchi. Alla fine, dopo aver chiamato l’esperto informatico dell’ufficio, che invece di gestire le pratiche Spid è a fare consulenza sui prodotti Bancoposta, si svela l’arcano: l’errore di compilazione è dovuto alla doppia m di Chitemmuort. Sì, proprio così, una password sicura, secondo le politiche del sistema, non può contenere due lettere uguali. E, se la password è sbagliata, non si può procedere al pagamento. Serve un Chitemuort addolcito, una versione avellinese… All’ingegnere non resta che ringraziare per aver informato dettagliatamente l’utente riguardo alla natura dell’errore attraverso il messaggio chiaro ed esplicativo “Si è verificato un errore nella compilazione”.

Chiedo scusa se mi sono lasciato trasportare dall’ironia, ma l’iter descritto è esattamente ciò che succede molto frequentemente: basta cercare su Google “Si è verificato un errore nella compilazione”, per rendersene conto.

La domanda che mi (e vi) pongo è la seguente: siamo proprio sicuri di andare nella direzione giusta? È proprio questo il modello di società che abbiamo in mente?

Non vorrei dirottare il discorso sulla pericolosità degli uomini organizzati a discapito delle minoranze disorganizzate, perché entrerei in un campo che esula dalle questioni digitali. ma sarebbe opportuno soffermarsi a pensare quanto la digitalizzazione ci permetta di “essere” (poco), di apparire (tanto), o quanto l’appartenenza a un gruppo di persone iperconnesse trascuri le esigenze e le difficoltà delle minoranze analogiche. In questi lunghi mesi di isolamento, mi sono chiesto molte volte quanto sia realmente inclusiva la digitalizzazione e sono giunto alla conclusione che la società virtuale che stiamo creando non mi piace. Non dico che sia peggiore, dico che non mi piace. Ho imparato a mie spese quali siano le conseguenze delll’illusoria vicinanza che sembrano dare i sistemi di messaggistica: non è così, non vicinanza è lontananza “politicamente corretta”. E ho imparato che non basta avere del tempo a disposizione se non si hanno le idee chiare su come (e con chi) spenderlo. Ma, soprattutto, partendo dalla nonna e arrivando alle recenti fazioni SI vs NO, Sivax contro Novax, Si greenpass contro No greenpass, ho capito che siamo impreparati a indossare i panni dell’altro, a immedesimarci e a tollerare la diversità. L’applicazione della digitalizzazione, non la digitalizzazione in sé, rispecchia l’intolleranza e la chiusura verso la diversità tipica dell’epoca in cui viviamo. Nei fatti, sia chiaro, perché sui social un “Mi piace” ai post che riguardano i migranti o il DDL Zan non si nega a nessuno. È radical chic. Dà l’impressione di una larghezza di vedute che abbina i voli delle menti politicamente corrette alle gambe corte dei talebani. Eppure, una digitalizzazione più umana sarebbe possibile: basterebbe iniziare a immedesimarsi negli altri “da dentro”, invece di guardarli e giudicarli da fuori, da lontano, da dietro uno schermo. Sentirsi rom per un giorno, o ladri, o anziani, o malati, o prostitute, o migranti, e vedere l’effetto che fa, per capire realmente come si sta dall’altra parte, in mezzo a quella minoranza in cui si può finire per colpa, per fatalità o semplicemente perché è così che deve andare, perché prima o poi tutti diventano qualcun  altro. Discriminato. Oggi, l’esperimento sociale è abbastanza semplice: basta dire “sono contro il green pass” e si passa automaticamente dalla parte dei cattivi. Ecco, forse, andare in giro per un giorno senza lasciapassare, e sentirsi dire No, lei qua non può entrare o, peggio, No, lei non può più lavorare potrebbe aiutare a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Oppure, si potrebbe iniziare a viaggiare insieme alla famiglia Joad, fino ad arrivare a capire cosa sia la rabbia degli emarginati e la cecità delle masse: “Le strade pullulavano di gente assetata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro. E le imprese e le banche stavano scavandosi la fossa con le loro stesse mani, ma non se ne rendevano conto. I campi erano fecondi, e i contadini vagavano affamati sulle strade. I granai erano pieni, e i figli dei poveri crescevano rachitici, con il corpo cosparso di pustole di pellagra. Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.”

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